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UN'ANIMA DIVISA IN DUE Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 novembre 1993
 
di Silvio Soldini, con Fabrizio Bentivoglio, Maria Bako, Philippine Beaulieu - Leroy (Italia, 1993)
Amore impossibile, tra l'ispettore di sicurezza di un grande magazzino milanese ed una zingara sorpresa a rubare. Silvio Soldini cambia l'abito: ma non la sua anima di monaco, in pellegrinaggio tra i guasti del modo di vivere contemporaneo. Non c'è più l'organizzazione corale, la circolarità cosi ben organizzata dei "piccoli" personaggi di L'ARIA SERENA DELL'OVEST. Piuttosto, la volontà di dedicarsi maggiormente a due protagonisti, a viaggiare nel loro intimo. Con un affetto, un'attenzione che fa guadagnare al film in calore ciò che forse perde un poco in precisione rispetto al precedente.

Una prima parte a Milano, all'interno, negli immediati dintorni del grande magazzino di Piazza del Duomo, qualche trasferta in metropolitana, l'appartamento provvisorio nel quale vive da separato, il figlioletto con il quale gioca nella discarica delle autovetture. Ed una seconda, in" fuga " con la zingarella verso il sud, verso il mare, nella cornice di un filone che qualcuno ha voluto avvicinare ad altri del genere, primo fra tutti quello del Gianni Amelio di IL LADRO DI BAMBINI. Due momenti che spezzano una pellicola non breve (più di due ore) e non sempre concisa: ma due momenti voluti, poiché il regista vuol evidentemente iniziare sulla solitudine, il malessere dell'uno, per sfociare in seguito sulla medesima impossibilità d'inserimento (in una società, in una morale, in una psicologia) della giovane Rom che l'impiegato voleva non soltanto amare, ma soprattutto "salvare". Due momenti che potevano anche distruggere il film: e che talora intaccano la seconda parte, nel quale si vuol dire e spiegare un po' troppo, sfiorando il melodramma. Ma due momenti che, in definitiva, si costruiscono e sopravvivono splendidamente nella memoria, poiché governati dalla qualità, dalla lucidità dello sguardo cinematografico di Soldini che già avevamo ammirato in precedenza.

Bastano poche immagini del prologo (che pure è insolito, originale, in parte straniante) per dimostrarci come Soldini sappia dirigere un attore, inserirlo in un momento, in una situazione, un ambiente. Degli angoli di Milano squisitamente qualsiasi, dai quali il regista ricava gli umori, gli odori, il sapore dell'umido e della fretta: grande cinema, com'è grande il cinema quando lega i personaggi allo sfondo, trae dai significati, dei rinvii di questo ambiente lo spunto, il coraggio per avviarsi in quel viaggio all'interno degli individui. Che è ciò che conta: per mutare l'osservazione, la descrizione, in analisi, introspezione, partecipazione.

Non solo i protagonisti, dall'ottimo Bentivoglio (premiato per questo a Venezia) alla scelta non solo curiosa di Maria Bakò, la " Rom " scovata in Ungheria, dalla dizione angolosa e sofferta, dagli sguardi ed atteggiamenti che s'imprimono nel senso del film. Ma guardate come Soldini fa recitare il figlioletto del protagonista, e pensate a quanti mostri al formaggino invadono il cinema anche più esperto quando deve far parlare i bambini. Come il regista sa catturare le inflessioni pi autentiche delle parlate (il nonno ad Ancona, ed un po' tutti i personaggi solo apparentemente minori che sfiorano la vicenda per usare l'attore: ma senza distruggerne l'anima, la scorza che si porta appresso da sempre.

Fuga verso il mare, verso l'impossibile evasione. A suo agio da sempre fra le nebbie cittadine, negli autogrill delle autostrade Soldini allarga il suo cinema negli spazi con altrettanta disinvoltura: e le sequenze dei due giovani che incontrano la linea dell'orizzonte marino sono liriche e lucide al tempo stesso. Ora le focali (e Luca Bigazzi è ormai un altro dei grandi direttori della fotografia della tradizione italiana) si allargano, cercano di afferrare una globalità altrettanto difficile da comprendere, da guadagnare di quella iniziale: che Soldini aveva voluto filmare con quegli obbiettivi lunghi, che isolano l'individuo dallo sfondo sfumato, che lo cercano nella sua solitudine. O nel suo disinteresse, magari menefreghismo nei confronti del mondo che lo circonda, di ciò che dirà la gente.

Cinema dell'utopia. Non solo quella di poter far vivere assieme due marginalizzazione cosi diverse, come quelle di un ispettore di sicurezza nevrotizzato e di una zingara legata da sempre a delle regole anarchiche, diverse o forse semplicemente libere. Ma pure quella (che, stranamente , sembra ricordare talvolta il procedimento di Pialat) di un cinema dell'istante e delle sua intuizione, costretto ad inserirsi in una forma, un aneddoto, una struttura globale che minaccia ad ogni istante di spezzare l'incanto della vita afferrata con cosi felice, pudica facilità. È un scontro che arrischia d'intaccare il film: ma guardate ancora, prima che la pellicola si concluda, come l'autore riesce a districarsi dalla convenzione dei sentimenti. Pabe, al zingarella che ha fatto di tutto per inserirsi fra i " civili " torna al suo accampamento di periferia. Scende dal taxi, con la sua mini e la frangia ormai impeccabile, per tornare fra le botte e nel lercio: ma l'accampamento non c'è più. Al suo posto, un cantiere edile: non c'è fuga in avanti, ma nemmeno possibilità di tornare indietro. I personaggi di Soldini sono come intrappolati a metà: da quell'ingranaggio che chiamiamo civiltà, cultura, o magari soltanto tirare a campare.


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